Tornando un po’ bambini: quando suonare è giocare

Tornando un po’ bambini: quando suonare è giocare

suonare-e-giocareProdurre, mandare, emettere un suono”.

Dedicarsi a un gioco, singolo o collettivo, per spasso, passatempo o esercizio”.

Apparentemente queste due definizioni che il vocabolario ci offre non sembrano avere nulla a che fare fra di loro. Apparentemente, nella nostra lingua, si riferiscono a due verbi, due azioni totalmente diverse: suonare e giocare.

Due azioni che vanno invece a fondersi se solo ci spostiamo di pochi chilometri. E’ così infatti: per i nostri cugini francesi e inglesi, suonare e giocare si esprimono con la stessa parola: playjouer. E, in fondo, come possiamo dare loro torto.

Non può essere un caso se lo stesso verbo rimanda a entrambi i concetti: in un certo senso infatti, non c’è gioco senza musica. Se pensiamo soprattutto al ritmo, un gioco è davvero quasi come una melodia, una serie di azioni come note in sequenza che creano qualcosa e legate insieme dal puro e nobile fine del sano divertimento.

 

Tutti noi, quando siamo stati bambini, non importa che fossimo in Italia, Francia, Inghilterra o nell’emisfero opposto, abbiamo giocato almeno una volta a campana (o mondo, che dir si voglia): si traccia col gessetto lo schema numerato a terra, si lancia il sasso e si saltella nelle caselle numerate per completare il percorso.

Il rumore delle nostre scarpette da ginnastica con le suole consumate che balzano sull’asfalto, un piede dopo l’altro, non ricordano forse il battere del pedale sulla cassa, il ritmo costante che rende organica una canzone?

Un-due-tre-quattro, cinque-sei-sette-otto.

 

Ed è ancora più innegabile che la musica non può essere tale senza divertimento. Che sia suonata da colletti bianchi e smoking in un maestoso auditorium, che sia urlata in un umido garage o strimpellata tra i banchi di scuola, deve avere sempre il puro e nobile fine del sano divertimento.

Musica che nasce come gioco, come primo approccio quando siamo bambini e che tale deve rimanere.

 

Immaginiamo la scena: locale affollato, siamo a fine serata e il peso di una settimana d’ufficio inizia davvero a farsi sentire. Ma c’è ancora quel pizzico di adrenalina che tiene in piedi, che tiene in piedi lo spettatore e che tiene in piedi la band: i pezzi sono finiti ma non la voglia di tenere le dita incollate a quelle corde, a quelle bacchette. Parte la jam session, l’improvvisazione, massima espressione di libertà. Massima espressione di divertimento.concert-336695_1920

Quando stiamo sotto un palco, o quando siamo sopra ad esso, in fondo in fondo, speriamo sempre che arrivi questo momento: perché torniamo così un po’ bambini, nelle nostre camerette a suonare liberi, fregandocene se qualcuno ci sta ascoltando o meno.

Fregandocene se una nota è calante, fregandocene se una corda si rompe.

Giocando, semplicemente.

 

Dobbiamo dare ragione allora ai nostri cugini inglesi e francesi: il gioco è musica, la musica è gioco. Basterà tenerlo sempre a mente e, alla prima nota liberata nell’aria, far parlare la nostra parte più bambina.

Perché il concetto è semplice: per creare, inventare, per arrivare dritti al profondo bisogna sapere stare, sempre e comunque, anche un po’ a galla.

 

 

 

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Eliana Caggiati
elianacaggiati@gmail.com

Dopo gli studi in comunicazione e spettacolo, lavora come redattrice presso una piccola casa editrice e con vari magazine online di informazione culturale. Nel 2012 esce il suo libro Yellow Submarine: viaggio psichedelico nel mondo dei Beatles per la casa editrice Limina Mentis. Coltiva da sempre la passione per la scrittura, il cinema, la musica e le arti in genere.

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